Manca poco al termine del Festival di Cannes, la cui cerimonia di chiusura avverrà il 24 maggio, con Tarantino che presenterà la versione restaurata di “Per un pugno di dollari”, omaggio al cinema di Sergio Leone. Anche quest’anno la Croisette è stata l’ombelico del mondo, del bel mondo in particolare. Red carpet, abiti favolosi, attori e attrici come se piovesse, paparazzi, feste esclusive… e sì, anche i film in gara, alcuni già nei cinema, altri coming soon. Tuttavia, qui su UFG, lasceremo a chi è molto più competente le disamine e i giudizi sulle pellicole in concorso e ci concentreremo su quei piccoli particolari frivoli che danno colore all’evento e, senza i quali, non sarebbe mai la stessa cosa.
Pubblicato da Hop! Edizioni, 7° Piano è un graphic novel che racconta una storia difficile e dolorosa, ma proprio per questo importante e che tutti dovremmo leggere. Il settimo piano è quello più in alto, ma anche il più lontano dal mondo, dove è facile sentirsi persi e soli, senza appigli a cui aggrapparsi per evitare lo schianto. Dove si nascondono orrori e segreti terribili da cui poter sfuggire solo cercando quella via di fuga che troviamo dentro di noi. Una storia di violenza e dolore, che lascia cicatrici profonde anche quando il riscatto è in atto e la rinascita sembra possibile. Ma le ferite restano lì, come monito per tutti, anche per te che credi di essere al sicuro nella tua vita, nel tuo amore, nella tua casa ai piani alti.
Titolo: 7° Piano
Autore: Åsa Grennvall
Anno: 2014
Editore: Hop! Edizioni
ISBN 9788897698159
“Åsa Grennvall ha creato Settimo Piano (Sjunde Våningen) nel 2002, quando ancora non si credeva che esistesse una questione femminile e soprattutto una questione di violenza sulle donne: ma dai, non avete forse ottenuto tutto quel che volevate? Non avete la parità? Non siete libere? Non lo eravamo, non lo siamo. Nè lo sono gli uomini, nè lo è lo spaventoso Nils di questa storia, prigioniero del suo terrore di carnefice. Åsa ha la fortuna (che dovrebbe essere diritto) di incontrare le persone giuste, i poliziotti empatici, i familiari attenti, e di liberarsi. E nonostante questo la sua identità è andata in pezzi, dice, e non sa come ricostruirla. Siamo stati, tutti e due, marchiati a vita, dice ancora. Bisognerebbe cominciare prima, penserete una volta chiuso il libro.”
Loredana Lipperini - Prefazione
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Martedì 18 febbraio è partito il 64° Festival di Sanremo e nonostante tutti, ogni anno, promettano di non volerne sapere nulla, alla fine tutti ne parlano. E’ più forte di noi: quando c’è un circo mediatico del genere è difficile tenere a freno la curiosità, anche solo per una sbirciatina tra uno zapping e l’altro. Io poi lo guardo da sempre. Beh in alcuni periodi della mia vita me lo sono anche risparmiato, che avevo anche di meglio da fare, ma poi ci ricasco ed eccomi, l’anno dopo, di nuovo con il televisore su Rai1 e con il palco dell’Ariston davanti. Da qualche anno, poi, mi diverto a dileggiare presentatori, ospiti e cantanti, con una combriccola di criticoni sul un gruppo Facebook di cui, modestamente, sono una delle amministratrici (se volete unirvi, fatevi avanti).
Insomma, i motivi per guardare Sanremo li trovo sempre. Ma se a voi il semplice “Perché Sanremo è Sanremo” non basta per spingervi a guardare il Festival, allora ecco qualche spunto.
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Qualche giorno fa leggo sulla pagina Facebook di Zelda was a writer di questa iniziativa: Ti guardo nel cuore: un invito per Lucia Annibali. Ho letto l’articolo dedicato a Lucia Annibali e ai suoi 36 anni. Compiuti oggi. Il suo Anno Zero. E mentre leggevo mi è tornata alla mente la notizia, distratta e confusa, che lessi mesi fa e il ricordo di un brivido sulla schiena che, nonostante la fretta con cui leggevo il giornale, è difficile reprimere e, poi, dimenticare. Ma niente più sapevo della vita di questa sfortunata ragazza, un avvocato con una carriera luminosa davanti a sé apparentemente stroncata da un amore malato, fino all’articolo uscito su Corriere.it.
E questa volta leggendo, la pelle d’oca mi è venuta per il coraggio di Lucia.
Lucia che ha sfidato dolori, operazioni, notti buie e silenzi del cuore. Che ha affrontato tutto con un coraggio e una determinazione incredibili, nonostante tutto le remasse contro e i dottori fossero poco fiduciosi della sua ripresa. Sette interventi e un percorso che forse non finirà mai. Ma Lucia ora appare in piedi in tutta la sua bellezza. Un volto sì sfigurato, ma non è certo una cosa di cui deve vergognarsi lei, ma quegli uomini, tra cui il suo ex compagno, che le hanno inferto questa ferita in preda a un odio che mai riuscirò a capire. Ora questi individui sono in prigione. E lei può riprendere in mano le redini della sua vita.
L’aveva promesso a se stessa: “Prima o poi esco alla scoperto… Che vedano pure come mi hanno ridotta, non sono certo io che devo vergognarmi.” E ora il momento è arrivato.
Il gesto di Lucia mi ha commosso ma anche rafforzato. Viviamo in una società in cui le violenze sulle donne sono all’ordine del giorno. Non sempre le vedi al telegiornale o le leggi tra le pagine di cronaca. Molto spesso sono nascoste e chi ne porta i segni rifugge la realtà, perse in una ragnatela di sofferenze e falsità da cui è difficile uscire. Ma Lucia ha risalito la superficie e stracciato la ragnatela. E ora è pronta a lottare. E se Lucia può farcela, allora possiamo farcela tutte noi. Possiamo imparare e volerci bene, a comprendere e amare le nostre capacità, a non sminuirci, a non incolpare noi stesse se in cambio di amore riceviamo violenza, a condannare chi ha tramutato la storia del principe azzurro in quella di Barbablù.
L’Anno Zero di Lucia comincia oggi. E io non posso che augurarle di continuare ad avere questa forza e di vivere una nuova vita piena di tutto ciò che desidera.
Siamo con te Lucia. Un abbraccio forte e tanti auguri!
#augurilucia #tiguardonelcuore
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Ok. Non è che sono tornata dalle vacanze con due anni in più. Anzi direi di sentirmi più adolescente di prima. Ma proprio questa sensazione mi ha fatto pensare al post di Bruna, a cui con grande ritardo rispondo solo ora. Bruna sul suo blog ragiona sull’avere o essere sulla soglia dei famosi trent’anni con uno sguardo al passato, quando eravamo bambini e guardavamo i trentenni come uomini e donne con una loro vita adulta a tutti gli effetti, e uno sguardo al presente, dove i trentenni siamo noi e adulti non lo siamo ancora mai stati in fondo. Per leggere le osservazioni di Bruna sul tema vi rimando al suo blog, dove troverete anche una lista di cosa a suo parere significa avere 30 anni oggi. Infine Bruna chiede il nostro contributo, con un elenco personale dei punti su cosa significa per noi essere arrivati ai -enta.

Fresco di vacanze, il mio cervellino ci riflette su. E questo è il risultato:
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E voi cosa ne pensate? Avete una lista sui sintomi dei 30 anni? Se vi di mettervi alla prova, passate dal blog di Bruna e prelevate il banner e poi sfogate la vostra “trentennità”!
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Tralasciamo l’enorme errore di grammatica, che al solo sentirlo ho avvertito un brivido corrermi lungo la schiena. Ma quando quella ragazza seduta dietro di me sull’autobus ha pronunciato questa frase, con una spontaneità schiacciante, ho sentito – oltre al brivido – una scossa nel profondo. Lei parlava con il suo ragazzo e discutevano del futuro, della tesi e della loro vita dopo la laurea, dei lavori o meglio della mancanza di lavoro dei loro amici già laureati. E io ascoltavo, rapita da un discorso che, nella sua semplicità e con tutti i suoi errori, era tutto ciò che ho sempre pensato a proposito della mia vita e di quella dei miei amici, compagni di un’avventura tutt’altro che emozionante: il mondo dopo l’università.
Quando abbiamo cominciato ad avere così paura del futuro?
Ricordo che da bambina ero più che sicura di cosa avrei fatto da grande. Guardavo E.R. o la Dottoressa Giò (si lo ammetto, ma ero un’infante, abbiate pietà), I ragazzi della terza C o Compagni di scuola e sapevo che nella vita avrei fatto la dottoressa o la professoressa. Facevo merenda con anime giapponesi e serie americane (che a quell’epoca si chiamavano cartoni animati e telefilm e basta) ed ero sicura che il mondo era sempre più vicino e che avrei viaggiato con la stessa facilità con cui la domenica insieme ai miei genitori andavo a trovare i miei parenti a 50 km da casa. Leggevo libri su libri e confidavo che la cultura mi avrebbe reso una donna migliore.
Sì, ero un mare di certezze da piccola.
Quando sono cresciuta, ho seguito un percorso che mi ero delineata da sola, conscia di inorgoglire i miei che volevano per me un futuro radioso. Studiavo, prendevo bei voti, poi assolutamente il Liceo e una volta diplomata l’università, possibilmente fuori casa, così avrei imparato a essere indipendente. Al liceo le certezze hanno cominciato a vacillare. “Scegli quello che ti piace! Non ti uniformare, non essere banale, vai lontano da casa e fatti una vita altrove, cresci e sii fantastica!”, questo mi ripetevo mentre cercavo la facoltà adatta a me.
Ero un mare di insicurezze da adolescente.
Ma avevo ancora fiducia nel mio futuro. Volevo spaccare, volevo volare, imparare a cavarmela da sola. Basta mamma, basta papà, basta amici poco interessanti e preoccupati solo di come apparire il sabato sera. Volevo gente stimolante attorno a me, che mi mostrasse cosa ci fosse al di là del nido. E volevo apprendere tutto il possibile che potesse servire a crescere e diventare la persona fantastica con una carriera da sogno che desideravo.
Moltissimi chilometri da casa e mille cose da scoprire e persone da conoscere. Gli anni universitari ci hanno colto nel momento in cui la vita vuole mostrarci come sia veramente, ma a ben guardare, eravamo ancora protetti dalla nostra ingenuità giovanile, dall’amore familiare che arriva nonostante la distanza, da un universo come quello dell’università in cui sei una matricola, uno studente, un fuori sede, un nome su una lunga lista durante l’appello per un esame, un voto sul libretto e una corona d’alloro il giorno della laurea. E vivi la vita dello studente, tra esami e sessioni, vero, ma anche tra uscite con gli amici, feste, sbronze, incontri interessanti. Ti politicizzi o semplicemente ti informi, hai un opinione su tutto ciò che succede nel mondo e ti indigni e approvi ammirazione per questo o per quell’altro. Alcuni di noi lavorano e studiano, altri fanno lavoretti part time, altri ancora non fanno nulla. Ma intanto gli anni passano, gli esami diminuiscono e la tesi è quasi pronta e tu ti rendi conto che di tutte le certezze che avevi da bambina si sono dissolte. La dottoressa non la puoi più fare, ha studiato Lingue. E la professoressa meglio che ci metti una bella pietra sopra. E poi non è neanche più quello che vuoi fare. Continui a sognare di diventare una persona interessante, di far carriera in una campo creativo e dinamico, di fare un lavoro che ami e he ti dia soddisfazioni. Ma i sogni sono sempre più indistinti, sfumati sullo sfondo di una realtà schiacciante.
Dopo la laurea ti ritrovi ad annaspare in un mondo a cui non sei mai stato realmente preparato. Un mondo che, per un motivo o per un altro, ti mette in difficoltà e a volte sembra proprio non volerti. E alla fine i sogni li metti in un cassetto e li lasci a far la polvere e tutto ciò che vorresti è solo un lavoro, solo uno scopo, solo un senso da dare alla tua esistenza. Incredibile come le cose si facciano complicate all’improvviso, come tutto appaia in salita e pieno di ostacoli.
Tutto a un tratto, sei un mare di paure.
Non sono una persona a cui piace crogiolarsi nei propri problemi. Né sono quella che si ripete di continuo quanto la vita sia ingiusta o crudele. Crescere significa anche saper affrontare le difficoltà di petto… credo. Ma lentamente nell’animo si annida qualcosa che non hai mai provato prima. Una paura, quasi ancestrale, per ciò che viene dopo. Per un futuro che sembra non appartenerti più. Qualche tempo fa, da qualche parte lessi che crescere è una fregatura. Penso che la fregatura stia proprio tutta in quella paura lì. Tutti noi troveremo una strada da percorrere, ci impegneremo e avremo anche un po’ di fortuna per trovare un posto nel mondo, ma mai più ci sentiremo forti e sicuri, mai più avremo quella fiducia che colorava le nostre giornate di bambini. Vedo me e i miei amici, penso alle vite che conduciamo, ai discorsi che facciamo ora e ripenso a quanto siano diversi da quelli di un paio d’anni fa. L’amica che è espatriata e non vuole tornare più perché significherebbe buttare quel qualcosa che ha costruito per un vuoto cosmico qui in Italia, l’amico che lavora in Francia che ha la ragazza qui e chissà quando si riuniranno dopo anni passati insieme stretti l’uno all’altro, l’amica laureata che si reinventa babysitter per sbarcare il lunario, quella che torna al suo paese ed è in attesa di una chiamata, chi ha deciso di fare un lavoro diverso da tutto ciò che ha studiato – ché a saperlo la specialistica se la sarebbe risparmiata – chi decide di andare a convivere, chi non sa se farlo o meno, chi si lascia perché la relazione non ha resistito all’impatto con la realtà, chi fa un master per carpire idee e ispirazioni su che strada prendere, insicura del suo futuro lavorativo ma anche amoroso.
Allora quelle parole dette da una sconosciuta in autobus tornano a risuonarti nella testa. “A me mi fa paura crescere”. E ti accorgi che sono tra le parole più vere che tu abbia mai sentito.
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